Sono quel che sono

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Quando voglio esprimere un concetto o un’idea cerco di documentarmi, sfoglio pagine e pagine di riferimenti, cerco di capire il significato delle parole e dei testi. Se però mi trovo di fronte ad una sensazione, uno stile o un’emozione, può succedere che tanto affanno nella ricerca non solo non risulti utile alla comprensione ma porti addirittura fuori strada. Così il mio movimento è quello della separazione. Divincolarmi da ciò che sono per darmi un’occhiata dall’esterno è uno dei processi più delicati che mi sia mai trovato ad affrontare. Il rischio è quello di cedere all’interpretazione più generica che gli altri hanno di me.
– Qui devo fermarmi un momento –
Che senso può avere per me stesso cercare di vedere questa immagine di me che hanno gli altri? E ancora di più, come questo potrebbe aiutarmi a migliorare la mia stessa esistenza e soprattutto in funzione di cosa?
Manca in effetti un presupposto di per sé scontato, certo, ma non trascurabile: viviamo immersi negli altri. Di questo dobbiamo ringraziare prima di tutto la natura stessa dell’uomo (non intendo qui abbracciare l’ambito religioso, mi limito quindi genericamente a parlare di “natura”) che ci vede da sempre non in grado di auto-replicarci. Per qualche motivo siamo quindi da sempre alla ricerca di un compagno con il quale riprodurci. La scoperta dell’altro nega da principio la condizione di solitudine. (cfr. Erri de Luca “Il contrario di uno“) Su questo meccanismo bio-obbligato si è sviluppata nei millenni e più intensamente negli ultimi secoli la tessitura di una realtà multi relazionale che i moderni chiamano “società”. Le regole di creazione prima, ed esistenza poi, di questa condizione sono state dettate nel tempo e in varie parti del mondo da uomini più o meno saggi, il che comporta oggi uno squilibrio globale difficilmente ripianabile. Senza voler indagare per il momento queste diversità, non posso negare che esistano per tutti delle “regole” di comunanza civile; alcune di queste sono state facilmente dettagliate in canoni, come diritti e doveri, altre possono essere più facilmente ricondotte ad una interpretazione principalmente etica del contesto: comportati bene, trovati un lavoro, non fare tardi la sera, spòsati, ecc. Mentre per le prime non ci può essere un facile fraintendimento: un diritto o lo si può esercitare oppure è negato, un dovere non rispettato è sempre un reato, per le seconde non è altrettanto garantita la stessa universalità, c’è anzi la possibilità che si scada (tutti insieme) in una lettura troppo rispettosa dei modelli e delle consuetudini sociali dominanti; una di quelle quelle che mi sta più stretta è quella che io chiamo “la cultura del fare”: l’anteporre il risultato concreto, l’ottenimento di un obiettivo a discapito della propria indole o inclinazione e ancora di più il tentare prima di tutto di essere identificati per quello che si fa o che si è fatto al posto di ciò che si è. Questa deriva dell’interpretazione etica molto comune in questi giorni richiede la costruzione di presupposti di base senza i quali non ci si può considerare sani o normali. Un lavoro stabile, una relazione stabile, una casa, sono mattoni essenziali di questo meta-linguaggio esistenziale che parla spesso per frasi fatte e per queste ultime è disposto ad ipotecare la vita tutta. Poi magari il lavoro si perde, la relazione impoverisce, la rata del mutuo aumenta e ci si ritrova così in un dramma imprevisto e incalcolabile.
Non è però per questo che  mi astraggo da me stesso per scrutarmi dall’esterno: non per essere preparato al peggio, per cautelarmi in caso di disgrazia, anche perché è ben poco quel che posso fare in questo caso (cfr. Il resto è Anima) ma piuttosto per l’analisi del contorno, per scansare la costruzione di quelle premesse, crollate le quali non sarei più in grado di rialzarmi.
Mi capita a volte di invidiare tutti quelli che hanno una grossa scatola ripiena delle loro certezze ben archiviate, catalogate e riposte in un luogo sicuro: per la stabilità che questo gli dona, per l’inamovibilità di certe posizioni che sanno di avere senza alcun minimo equivoco, per la loro indubitabile visione del domani; nonostante questo però non sono in grado di assestarmi su una posizione definitiva, dare di me stesso un giudizio conclusivo, sentirmi arrivato. Per questo mi metto in discussione, mi esamino, mi interrogo, poi non riesco, sbando e mi schianto, sono inquieto e a volte non ci dormo la notte, però mi sento vivo.
È così che sono.

 

Colonna sonora di questo brano:
Mercanti di liquore – Senza titolo
Francesco Guccini – L’avvelenata

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