Sum ergo sum

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Coniugazione del verbo essere, tempo indicativo presente, prima persona singolare.
Sono.
Io sono: ci si attacca poi il pronome che normalmente sta sottinteso perché così si rafforza l’identità di proprietà, di possesso, me stesso. Di chi è quel “sono”? Mio.
Essere distacca con larga soluzione di continuità una miriade di altri verbi personali: appartenere, sostenere, parteggiare, seguire. Oggi da qualche parte qualcuno mi chiede di non stare, di non schierarmi, di non inneggiare.
A malincuore debbo rispondergli che non mi è possibile farlo, ma non perché io non lo voglia, ma perché io non lo sono. Non appartengo, non supporto, non mi associo.
L’ho fatto in passato (e lo rifarò), vedo #iostoconerri e mi ci ritrovo. Io non sono Erri De Luca, ma sto dalla sua parte, muovo il mio corpo intero, senza scremature, mi sposto, tutto, da quel lato della strada. Sostengo la sua idea per la libertà di poter essere espressa, per la possibilità di chi ha una voce pubblica di usarla. È uno sforzo che faccio, ed è fatica, sì perché non è gratis; lo faccio per permettergli di poterla usare e garantire che all’esterno tutte le condizioni siano le migliori possibili perché dentro di lui nulla impedisca di sentire questa parola come necessaria. Io sto con. Ma non sono lui.
“Stare con” è un impegno e un rischio perché significa anche stare contro, e lo si fa nei confronti di chi non si è mosso dalla sua posizione, di chi non ti sta seguendo, di chi, quando tu muovi il tuo passo, ne compie uno per allontanarsi da te. Di questa distanza, sempre se ne paga la conseguenza.
Stare con, appartenere, sostenere e tutti gli altri verbi, avvicinano e allontanano allo stesso tempo, costruiscono e distruggono, uniscono e separano, compattano e sgretolano.
Stare con, è stare in più di uno.
Essere, invece è faccenda tua, è impiccio delle viscere, e l’abito scomodo che indossi, è pelle, muscoli e siero, è tossine e scorie di fatica del giorno. Essere è il morso allo stomaco da farci i conti la sera, quando nel buio del letto il pensiero va oltre la terra.
Essere non necessita di capire, di informare, di sapere, di imparare.
Mi si chiede allora anche di recuperare le sorgenti dell’azione, di comprenderne le motivazioni, di fare luce sulle verità, di conoscere le relazioni.
Oggi viviamo (non so ancora con precisione se tutta questa sapienza sia una fortuna o meno, di sicuro è un mutamento) in un mondo fortemente interconnesso dove le informazioni viaggiano rapidamente e a volte senza controllo. È diventato molto più facile rispetto al passato, accedere a notizie, idee, azioni e reazioni; si è diffusa una vasta cultura dell’informazione che rende tutti più consapevoli della possibile incertezza delle fonti e fornisce forse anche qualche strumento per poterne verificare genuinità e pensiero. È diventato più semplice diffondere menzogne spacciandole come indubitabili verità e c’è il rischio che valori fondamentali come la bellezza, la generosità, il dono, il teatro, rimangano nascosti o travolti e sopraffatti dalle dimensioni del flusso di notizie.
È ora molto importante impegnarsi in un esercizio di comprensione degli avvenimenti sommando le angolazioni più disparate e cercando di ricreare l’immagine più ampia possibile per trarre una visione di insieme, qualche anno fa molto difficile da ottenere.
Questo atto di apertura, non solo apprezzabile ma doveroso, diventa invece rischioso ed estremista ogni volta che la formazione di un’idea non prende spunto da tutti i dettagli contenuti in questa fotografia panoramica, che gli strumenti di oggi ci permettono di scattare.
C’è bisogno di uno sforzo, di un pensiero comune.
Ma oltreché capire, imparare e quindi sapere, perfino “pensare” è totalmente altro da essere.
Se dico di essere, non c’è alcun dubbio di origine e se qualcuno o qualcosa viene ucciso e io sono quell’uno o quella cosa, “io” vengo ucciso, non è solidarietà, non è mettersi nei panni di, non è empatia o sostituzione. Una parte di me, di ciò che sono se ne va, si perde per sempre e non esisterà mai più. Ne rimarrà l’idea, da sempre più forte della morte, che si tramanda di generazione in generazione sotto forma di valore, scritta a volte col sangue.

Io sono libero.
Anche di non esserlo.

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