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Sono molto dispiaciuto, me ne dolgo, chiedo scusa.
Se mi interrogo su questo gesto di auto-assoluzione che mi sembra unico nel panorama delle offese, dove spesso invece si reclamano risarcimenti anche pretestuosi, lo immagino così, d’acchito, gravemente insufficiente nel sanare il presunto “reato” che si è commesso, per cui si tenta l’amnistia.
Ho fatto un piccolo sondaggio, e sono stato quasi sopraffatto, non esattamente aggredito ma poco ci mancava, come se si andasse a tastare un nervo scoperto, un piccolo scheletro lasciato nell’armadio, un magone, sì, un magone rimasto lì, ancora da mandare giù. Quasi che chiunque abbia subito questo dispetto.
Allora forse che tutto questo non basti, a me sembra confermato da queste reazioni inaspettate.
La prima constatazione però sta nella qualità del torto subìto. La quantità intesa come reiterazione, amplifica ma non spiazza la scena; se invece si tratta di aumentati livelli di sofferenza allora il discorso può dirsi diverso ma non nella forma.
Cerchiamo all’inizio di rimanere sullo stesso piano: ho di fronte qualcuno che mi ha umiliato, mi ha mentito o che ha deluso le mie aspettative, non ha tenuto fede ad una promessa, ha tradito la mia fiducia. Le due parti in questo caso si trovano nello stesso ambiente, abitato però da punti diametralmente differenti: chi procura l’offesa sente (a volte) poi di dover riparare al danno che ha causato.
Già di per sé questo scatena una riflessione intrinseca: da dove viene quel sentimento che ci dispone in questa condizione? Perché ci si sente gravati da una colpa?
Questa prima risposta non è né semplice né univoca. Potremmo pensare alla natura stessa dell’uomo come essere relazionale che mette a rischio un rapporto prezioso, oppure alle regole che la società ci propone, al buonsenso e alla convivenza civile, potremmo infine essere guidati (o costituiti) da entità superiori. La impossibile sintesi è anche contrappunto ad altre questioni: dove nascono sentimenti quali la carità, la solidarietà, il mutuo soccorso, la pietà ecc?
Spingendoci in questa direzione, non è difficile intravvedere il limite (inteso come l’andamento di una funzione matematica) per il sentimento che tende ad essere radicale (animale) della funzione uomo, e qui per esempio potremmo includere tra i possibili risultati l’istinto primordiale della riproduzione. A queste disamine manca infatti sempre più spesso una visione totale dell’epopea dell’uomo che deve necessariamente partire dai suoi albori (anche, se vogliamo, misteriosi) per propagarsi nella storia attraverso le sue conquiste e trasformazioni in cui la cultura e la società (in qualunque direzione si siano indirizzate) sono cardini fondamentali della sua evoluzione. In questo non voglio esprimere un giudizio qualitativo, dico però che se nel tempo si è sviluppata una qualunque teoria del perdono, non possiamo che rallegrarcene: ci siamo fatti la guerra, ora facciamoci la pace; qualcuno retroceda, qualcuno faccia volontariamente un passo indietro, ma se qualcuno si muove, se qualcuno parte, alfine lo fa senza sapere bene il perché o almeno senza esserselo mai veramente chiesto.
E a chiederselo ci si pone l’interrogativo della gratuità: ma non del gesto (la cui origine non abbiamo qui voluto approfondire) quanto dello sconto di pena celebrato dallo stesso richiedente. Perché al solo “chiedere” il perdono, lo si dovrebbe anche ottenere? Cos’è e basta la sincera contrizione di un cuore pentito?
Ho distrutto la tua casa, scusa.
Ho rubato il tuo raccolto, mi dispiace tanto.
Ho ucciso tuo fratello, chiedo venia.
Ora, per fortuna, il sentimento di perdono più genuino trascende la necessità della richiesta; non c’è una coda da smaltire o un iter da perseguire. È e rimane totalmente gratuito, completamente insensibile all’entità e all’insistenza del male, indifferente all’appello, misera mendicanza.
Il perdono è bontà, mitezza, libertà e, per chi ci crede, santità.
Chi la inquina cercando di salvare se stesso non lo merita.

 

Questa puoi ballarla:
Madonna – Sorry

 

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