Brivido

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Quella mattina Paolo, si era svegliato di buon’ora come era solito fare. La sua giornata iniziava sempre con il canto delle lodi, una tradizione ereditata dalla nonna che lo aveva allevato come una seconda madre. Gli piaceva recitare quelle parole sotto al portico dell’oratorio che dava verso ovest, dalla parte dove il sole tramontava, perché da lì si vedeva scendere piano l’ombra di quel grande palazzone che dal fondo della strada veniva proiettata all’alba, fin sulle case di fronte. Era grazie a quella discesa, immaginata come un contrappeso che sarebbe riuscito a far salire la sua preghiera fino a Dio. Paolo in quel momento decise che da grande avrebbe voluto fare il prete.

Marta e Antonio si erano abbracciati anche quel giorno davanti allo specchio in salotto, le braccia di lei, infagottate in un cappotto cremisi, giravano attorno al collo di lui. Per qualche ragione lei che era più bassa di almeno dieci centimetri, si ostinava a compiere quel movimento sempre verso l’alto: i piedi spinti sulle punte la facevano sentire in azione, in avvicinamento. Le sembrava di poter colmare con quel gesto, la distanza non solo fisica che avvertiva nei confronti di lui, Antonio era più grande, più grosso e (secondo lei) anche più intelligente. L’impeto nell’allungarsi le dava un senso di completezza e il loro abbraccio non si scioglieva mai prima che ruotando di un quarto di giro, lei potesse dare una rapida occhiata alle loro forme che si stagliavano come allampanate sul lato lungo della superficie argentata. Quell’oggetto aveva un aspetto prezioso e per qualche ragione, nessuno dei due ne conosceva esattamente l’origine. La cornice era intagliata a mano e lungo gli angoli non si potevano scorgere segni di giunzione, lo strato di argento formava una corona di ossido sul perimetro mentre il vetro anteriore era messo lì così, come appoggiato. Da quella posizione mentre ancora stava crescendo la sua autostima nell’ammirare la figura intera dell’unione di sé con lui, a Marta sfuggì dalla gola un piccolo gemito strozzato, le cedettero le braccia e con loro le punte dei piedi e il loro abbraccio si sciolse.

Samir aveva appena spinto Franco sulla sua carrozzina, oltre la porta del bagno grande sul piano, oggi era il giorno in cui avrebbe lavato l’uomo di cui si prendeva cura ormai da qualche anno. Era arrivato con la prima ondata agli inizi degli anni ’90 e dopo qualche lavoretto trovato qua e là, era riuscito ad entrare come addetto alle pulizie alla casa di riposo. Quel posto gli piaceva, ma ancora più del lavoro o dei colleghi, scoprì che erano gli ospiti ad interessargli. Così dopo aver frequentato con successo diversi corsi e imparato bene la lingua, fece domanda e alla fine fu assunto come assistente agli anziani: Franco gli venne affidato fin dal primo giorno, quasi dieci anni fa. Di lui sapeva oramai tutto: dal primo espatrio con nel cuore la speranza di un futuro migliore, alla polvere di carbone depositata sui polmoni negli anni della giovinezza, da quel maledetto giorno a Marcinelle e la fuga dal Belgio, al ritorno a casa e alla fabbrica del cemento. Franco non si era mai sposato, aveva lavorato duro e ora che le forze lo stavano abbandonando, aveva promesso a Samir che gli avrebbe lasciato tutto quello che negli anni aveva messo da parte. Lui lo prendeva in giro dicendogli che di certo non era ricco, altrimenti avrebbe potuto permettersi una clinica di lusso con “personale di qualità” (questa espressione faceva sempre ridere Franco) e che quindi dei suoi due spicci non sapeva che farsene, già che si sentiva invece lui, ricco, a ripensare a quei giorni passati sul gommone in Adriatico. E mentre ritornava con la mente a tutto questo, Samir andò a sbattere con le anche sul retro della carrozzina di Franco; lì per lì pensò che non avessero bene inquadrato il passaggio e che una ruota fosse rimasta incastrata contro lo stipite della porta ma subito si accorse che erano già dentro alla stanza. Era stato proprio Franco che animato da una strana energia, aveva afferrato con forza le ruote bloccandole con le mani.

In strada gli alberi erano tutti caduti, spezzati a metà lungo il tronco, oramai secco. Le fila delle costruzioni lungo i due lati delle vie si interrompevano in più punti, demolite dagli incendi e dalle esplosioni, le case ormai diroccate e abbandonate da anni. Al centro di quel vasto triangolo, un grande cratere, largo almeno una ventina di metri tracciava un grosso vuoto nell’ampiezza del luogo. Oltre il bordo, in fondo, in quella che un tempo era stata una chiesa, un bambino, una giovane donna, e un anziano si scaldavano davanti ad un piccolo fuoco. Nessuno di loro sapeva come fosse successo: qualcuno diceva che era stato il sistema, qualcuno le banche, altri invece credevano che dietro ci fosse stato un grande disegno, un piano. Nessuno si ricordava più né il motivo né il giorno. Solo si sapeva che in un istante quel colpo aveva raggiunto il centro dei giardini e che in un istante immediatamente successivo, Franco, Samir, Antonio, Marta, Paolo e tutti gli altri e i giardini, non c’erano più. Non c’erano più le preghiere e le ombre, gli abbracci in punta di piedi e le cornici, le bolle di sapone e le carrozzine. E così, mentre arrivava la notte, intanto che tutti non ricordavano, e nessuno sapeva più il perché di quello che era successo, accanto a quel fuoco salì un po’ alla volta una foschia, come una bruma. E poi una nebbia, a poco a poco sempre più densa e poi così fitta che le persone attorno non si vedevano più.

Fu proprio oltre quella nebbia che Paolo scorse il sole già alto, riflettersi sulla finestra della casa di riposo di Franco, lo vide da lontano pulire con la mano il velo di vapore che si forma sui vetri dei bagni troppo caldi, da lì lo raggiunse di rimbalzo, nel riflesso dello specchio che Marta aveva sistemato con un tocco leggero del piede. Avvenne così che solo per un istante, ai loro occhi i giardini erano spariti. E un brivido gli corse lungo la schiena.

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